domenica 18 maggio 2014

Oliver Sacks: ovvero sull'essere antropologi su Marte

Quando si inizia la lunga salita che porta a diventare un qualche tipo di medico, ci si imbatte, in dirittura d'arrivo, su un'ulteriore cunetta. Affannati dal viaggio lungo sei anni, si deve scegliere se e quale specializzazione fare. C'è una fetta di colleghi della mia generazione che, avendo deciso di diventare neurologo, si ritrova poi, anni dopo, nei momenti di sconforto, ad offendere Oliver Sacks e diverse generazioni di suoi antenati per aver incoraggiato l'impresa.
Leggere Sacks, per chi è o vuole essere neurologo, è un gesto che fa parte della propria formazione.
I racconti di questo autore non sono articoli scientifici. Non si impara a diventare neurologo leggendolo. Si impara, semmai, a volerlo essere.
Nei suoi scritti, brevi o lunghi che siano, vengono raccontate le storie cliniche di pazienti affetti da particolari (ma talora anche comuni) malattie neurologiche. Lo stile dello scrittore non è molto diverso da quello di un romanziere profano alla medicina. La malattia è descritta nelle sue particolarità, si accenna talora alla storia della scoperta della patologia, vengono fatti rimandi a celebri neurologi che hanno contribuito a dare un nome a tali condizioni in epoche passate, ma il linguaggio non è strettamente settoriale. La scrittura è scorrevole e piacevole, in particolare nelle raccolte di racconti.
Sacks pone l'attenzione in primo luogo sul sintomo e sulla causa della  patologia ma poi si sofferma a raccontare anche come il protagonista, o, dovrei dire, il suo misterioso e affascinante cervello, sia riuscito a mettere in atto delle strategie volte a compensare il deficit. Quello che non fa, fortunatamente, è di indugiare sul dolore, mantenendo uno stile scarno, scevro da pietismi.
Lo scrittore è tuttavia piuttosto sgradito a parte della comunità scientifica che non ne apprezza la mancanza di metodo. Taluni ne disprezzano anche l'uso delle storie di pazienti, che invece che oggetto di casi clinici di interesse scientifico diventano protagonisti di storie. Insomma, Sacks è ritenuto un medico che sfrutta i suoi pazienti per farne letteratura.

Tra ciò che ho letto la mia raccolta preferita è sicuramente "L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello", ma oggi voglio parlare brevemente di un'altra, L'Antropologo su Marte. 
Si tratta di un testo che racchiude sette racconti. Quello che mi ha colpito di più è il primo, Il caso del pittore che non vedeva i colori. Si racconta  la storia di un pittore (Signor I) che in seguito ad un trauma cranico aveva selettivamente perso la capacità di percepire i colori. E questo, per un pittore, è, come dire, un bel problema. Col tempo il paziente inizia a cercare metodiche alternative per restituire colore al suo mondo pittorico senza riuscire mai a recuperare la visione colorata.
Questa breve storia è capace di aprire voragini enormi di domande, che, trattandosi di neurologia, per molta parte rimangono assolutamente non risposte.
Qual'è la natura del colore, il colore esiste o è una creazione dovuta alla visione colorata dell'uomo? E' implicito che la visione colorata sia distinta nel cervello dalla visione delle forme, ma come fa il cervello a vedere i colori? qual'è la localizzazione cerebrale della visione colorata? Le ipotesi si sono sprecate nel corso degli anni e Sacks ne esplora a grandi linee le principali. Tutto questo raccontando la storia del Signor I. che passa attraverso una fase di disgusto e rifiuto per la sua nuova condizione a quella di una dolorosa e rassegnata accettazione.
Quando ho letto questo libro ero sul punto di iniziare un lavoro di ricerca volto a capire come identificare e quantificare il danno causato da alcuni insulti (nel mio caso ischemici) cerebrali, che colpiscono le regioni posteriori dell'encefalo, e che possono determinare la perdita selettiva della capacità di riconoscere volti, luoghi, tipi diversi di stimoli visivi e, appunto, i colori. Stavo valutando pazienti con tale disturbo e appassionandomi alla letteratura e ho visitato pazienti con disturbi simili a quelli del Signor I.
In quel preciso momento Sacks mi stava raccontando quello che avevo sognato potesse essere il mio lavoro e che in qualche modo lo stava diventando. Mi stava dicendo che il cervello è il mezzo con cui vediamo il mondo e quindi studiandolo stavo facendo la cosa giusta. E questo nonostante non ci sia alcuna possibilità di capire tutto e in modo definitivo. Nonostante ci si possa passar la vita tentando.
La definizione di Antropologo su Marte è quella che una paziente autistca dà di se stessa, della sua difficoltà nel capire il mondo. Nei confronti della comprensione dei meandri del proprio cervello l'uomo ha gli stessi limiti, le stesse difficoltà, che avrebbe un marziano sulla terra, o, appunto, un antropologo su Marte. Oliver Sacks ce lo racconta senza rigore scientifico, da scrittore, clinico  appassionato e osservatore, restituendo con i suoi racconti il senso di misteriosa fascinazione di una mente incapace di capire pienamente se stessa ma esterrefatta di fronte alla propria complessità.


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